La manovra Tremonti non può essere letta soltanto alla luce della necessità globale di fare sacrifici e tagliare fondi, perché così facendo si perde il quadro d’insieme che ne informa le scelte. Recentemente Tremonti, durante un’assemblea di leghisti, aveva elogiato chi non legge libri; certo una mossa per ingraziarsi la platea, ma molto indicativa. Nessuna sorpresa se poi lo stesso ministro taglia sulla cultura e blocca gli stipendi di insegnanti e ricercatori per 3 anni. Insomma, la necessità di tagliare c’era. Magari non solo tagliare, anche (e soprattutto) varare provvedimenti strutturali per far ripartire l’economia; comunque, diciamo anche tagliare, ci poteva stare. Ma è sul dove si taglia che si misura l’identità di un governo. In questo caso, la necessità di tagliare può diventare persino un’occasione. Il disprezzo che questa maggioranza coltiva nei confronti della cultura (Bondi ha poco da sorprendersi) e la conseguente decisione di tagliare un gran numero di enti considerati “inutili”, c’entrerà per caso qualcosa con il progetto di distruzione della scuola pubblica? E questo progetto c’entrerà per caso qualcosa con quella temperie (in)culturale, pensiero egemone di un quindicennio, che è il berlusconismo?
Entrambe le domande, è ovvio, sono retoriche. Mariastella Gelmini non esiste, esattamente come non esiste Angelino Alfano. Nessuno con un progetto eversivo (non dovremmo mai dimenticare il punto di partenza, che si chiama Loggia P2, altrimenti non capiamo più la sostanza delle cose) metterebbe a capo di due ministeri così strategici persone che pensano autonomamente. Mariastella Gelmini esiste soltanto come espressione di un progetto e di una volontà politica più ampi. Esiste come firma su un decreto. Esiste come mera esecutrice della volontà di altri. E se per caso avesse una volontà propria, sarebbe comunque del tutto inessenziale, in quanto questa volontà gli è concessa unicamente nella misura in cui collima con il compito che le è stato assegnato: quello, appunto, di assestare delle bordate decisive alla scuola pubblica, all’università e alla ricerca.
La manovra firmata Tremonti e la “riforma” firmata Gelmini vanno allora a braccetto, sono espressioni di una medesima volontà politica. L’idea è che la cultura sia inutile, sia soltanto una spesa, sia un passatempo ozioso e, in definitiva, una voce di bilancio negativa.
C’è sicuramente l’idea dell’inutilità della cultura, a un primo livello. A un livello più profondo, c’è inoltre l’idea della sua pericolosità, e qui intendo la cultura come conoscenza, come pensiero critico. Nell’epoca del berlusconismo trionfante, i tempi sono maturi per dare il colpo di grazia a questo nemico giurato, antidoto di ogni demagogia. Nel belusconismo la principale agenzia di formazione è la televisione. Una scuola pubblica forte e autonoma è un pericolo; la si affossa disinteressandosene, tagliandole i fondi, lasciandola morire, mentre si privilegiano le private e per l’università si segue il medesimo canovaccio.
L’evidenza non più negabile della crisi può certamente significare, per questo governo, dover fare i conti con l’incrinarsi del proprio messaggio di inossidabile ottimismo. D’altra parte, può rivelarsi anche un’occasione per portare avanti un progetto che è quello di sempre e, questo, non conosce battute d’arresto.
Entrambe le domande, è ovvio, sono retoriche. Mariastella Gelmini non esiste, esattamente come non esiste Angelino Alfano. Nessuno con un progetto eversivo (non dovremmo mai dimenticare il punto di partenza, che si chiama Loggia P2, altrimenti non capiamo più la sostanza delle cose) metterebbe a capo di due ministeri così strategici persone che pensano autonomamente. Mariastella Gelmini esiste soltanto come espressione di un progetto e di una volontà politica più ampi. Esiste come firma su un decreto. Esiste come mera esecutrice della volontà di altri. E se per caso avesse una volontà propria, sarebbe comunque del tutto inessenziale, in quanto questa volontà gli è concessa unicamente nella misura in cui collima con il compito che le è stato assegnato: quello, appunto, di assestare delle bordate decisive alla scuola pubblica, all’università e alla ricerca.
La manovra firmata Tremonti e la “riforma” firmata Gelmini vanno allora a braccetto, sono espressioni di una medesima volontà politica. L’idea è che la cultura sia inutile, sia soltanto una spesa, sia un passatempo ozioso e, in definitiva, una voce di bilancio negativa.
C’è sicuramente l’idea dell’inutilità della cultura, a un primo livello. A un livello più profondo, c’è inoltre l’idea della sua pericolosità, e qui intendo la cultura come conoscenza, come pensiero critico. Nell’epoca del berlusconismo trionfante, i tempi sono maturi per dare il colpo di grazia a questo nemico giurato, antidoto di ogni demagogia. Nel belusconismo la principale agenzia di formazione è la televisione. Una scuola pubblica forte e autonoma è un pericolo; la si affossa disinteressandosene, tagliandole i fondi, lasciandola morire, mentre si privilegiano le private e per l’università si segue il medesimo canovaccio.
L’evidenza non più negabile della crisi può certamente significare, per questo governo, dover fare i conti con l’incrinarsi del proprio messaggio di inossidabile ottimismo. D’altra parte, può rivelarsi anche un’occasione per portare avanti un progetto che è quello di sempre e, questo, non conosce battute d’arresto.
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