domenica 1 giugno 2008

La panacea dello Stato forte

Da troppe parti, ormai, si sente invocare la necessità di uno Stato forte. Basta vedere il modo in cui sono stati trattati da molta stampa i fatti di Chiaiano. Lo Stato non può recedere, si è detto. Ma si passa sotto silenzio che quello Stato è impersonato da colui che ha fondato, dal principio, il suo disegno politico sul progetto di eroderlo. Quello stesso Stato che ora gli si chiede di rappresentare con fermezza. Ci si dimentica troppo spesso, o si omette di ricordare, il ruolo fondamentale giocato dalla mafia nel traffico illegale dei rifiuti. Oppure lo si dice, ma si evita costantemente di sviscerare il connubio tra mafia e politica. Non sarà, questa, una componente importante del problema? E invece i fatti di Napoli sono stati presentati essenzialmente nei termini di un muro contro muro, dello Stato contro i cittadini in rivolta. Sottolineando che lo Stato non può fare marcia indietro. Molte analisi non fanno neanche un cenno al fatto che qui esiste un problema di credibilità, un male più radicale, rispetto al quale il pugno duro non può rappresentare una terapia sufficiente.

Lo Stato non deve cedere, si è detto, ma i problemi veri, come la mafia e il controllo capillare che esercita sul territorio, vengono aggirati, sottovalutati o taciuti. Sorge il sospetto, a guardare le cose nell’insieme, che allo Stato si stia chiedendo, in fondo, di essere forte con i deboli. Lo si chiede al premier Berlusconi, al quale in compenso quasi più nessuno chiede di rendere conto dei reati, delle collusioni, delle leggi ad personam. E, per estensione, non lo si chiede praticamente più a nessuno dei plurindagati che siedono in Parlamento.

In questa richiesta di Stato forte si sta consumando il naufragio della memoria. Il pericolo insito in questo oblio è elevato. Per giustificarlo si chiama in causa anche la fine certificata delle ideologie, un’analisi che però rischia di avallare proprio il ritorno di vecchi ideologismi. Basti guardare alle politiche sull’immigrazione.

Su La Stampa di venerdì scorso, Cesare Martinetti metteva giustamente in guardia dall’assunzione di facili posizioni ideologiche. Lo spunto è fornito da una riflessione sul raid del Pigneto. Il picchiatore portava tatuato il Che, la conclusione è che la xenofobia non è un sentimento solo di destra, che le ideologie sono franate lasciando solo icone post-ideologiche svuotate di senso; che lo scadimento del tessuto sociale è trasversale, si sta allargando e contagia soprattutto le classi popolari. Tutto vero, condivisibile. In tutto questo “la griglia destra-sinistra non tiene più”, si legge ancora. D’accordo.

L’intolleranza non ha colore. È vero. Ma ci si dimentica, o si omette di dire, che ad aver sdoganato la xenofobia è stata una classe politica precisa. La stessa che è al governo. La stessa che sta minando lo stato di diritto, destando la preoccupazione dell’Europa. La stessa a cui si chiede di incarnare lo Stato forte.

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