Gelmini a tutto campo. Il ministro della scuola non fa passare giorno senza dare ottime ragioni per parlare di lei. Purtroppo, nel complesso il suo ministero appare un mix letale di incompetenza e dedizione a un disegno un po’ reazionario e, soprattutto, molto clientelare della scuola pubblica. Gli ultimi giorni di agosto avevano visto divampare la polemica a seguito delle dichiarazioni della Gelmini sui professori del sud, che abbasserebbero la qualità della scuola pubblica. Qualcuno vicino al ministro deve allora averle spiegato che non è proprio così e che comunque magari non è il caso di metterla così. E le avrà anche suggerito, in modo più pertinente, che il problema della scuola è “strutturale”. E così il ministro aveva fatto prontamente marcia indietro, dichiarando che era stata fraintesa e che il problema è “strutturale”. Meglio. Speriamo che capisca anche cosa significa.
Ora è la volta del colpo di mano sulla scuola elementare, con i tagli e con il ritorno al maestro unico. In pratica, viene usata la scure per falcidiare l’unico ciclo scolastico nel quale l’Italia può vantare livelli di eccellenza (lo conferma anche la citatissima indagine Ocse-Pisa, che per gli altri cicli invece ci massacra), riportando indietro l’orologio, con il maestro unico, agli anni Sessanta. Tutto questo dopo che la manovra del governo, nel periodo estivo, aveva già sancito tagli ai fondi destinati alla scuola pubblica per poco meno di 8 miliardi, mentre il ministro Gelmini preferiva preoccuparsi di “innovazioni” come il voto in condotta e l’adozione della divisa. Cioè di provvedimenti che, se da una parte sono in linea col disegno complessivo, dall’altra rappresentano altrettanti diversivi rispetto ai problemi reali. Che sono, appunto “strutturali”. E a livello strutturale le idee del governo e del ministro Gelmini sono molto chiare: risparmiare, anzi tutto, con buona pace di innovazione e sviluppo, infarcendo il tutto con provvedimenti irrilevanti e/o nostalgici che pure devono suonare condivisibili almeno a una parte dell’elettorato di destra.
Ma sarebbe ingenuo pensare che questo governo intenda semplicemente investire meno sulla scuola. Il settore dell’istruzione è sempre stato nevralgico per qualunque classe politica, perché centrale è, comunque lo si voglia intendere, il ruolo della scuola nella formazione dell’individuo, della sua coscienza, della sua professionalità futura. Sulla scuola si sono sempre proiettate, inevitabilmente, le aspettative di qualunque maggioranza e per la scuola è sempre passato il progetto di costruire un determinato modello di uomo e di società.
Così la scuola gentiliana degli anni Trenta, incentrata sul liceo classico, era una scuola elitaria perché aveva lo scopo di preparare la futura classe dirigente. Gli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta hanno visto invece un allargamento dei diritti (per esempio nel 1974 l’accesso alle facoltà universitarie veniva esteso a tutti coloro che erano in possesso di un diploma) e la partecipazione alla scuola veniva estesa a parti sociali che fino ad allora ne erano rimaste escluse. Anche in quel caso, la riforma della scuola non può essere intesa se non mettendola in relazione con la volontà politica che l’aveva plasmata, recependo i grandi cambiamenti sociali intervenuti.
Dobbiamo quindi chiederci quale sia la volontà politica che informa lo scempio della scuola pubblica che si sta compiendo sotto i nostri occhi. Per spiegarlo non basta la necessità, imposta da Tremonti, di fare cassa. C’è anche, e soprattutto, il progetto, di lungo termine, di lavorare alla creazione di una classe d’insegnanti meno indipendente, meno orientata a suscitare l’attitudine al pensiero critico e più malleabile, più disponibile a rappresentarsi come emanazione di una precisa volontà politica. Che è fatta, anche, di una pericolosa tentazione nostalgica, che periodicamente torna ad affiorare. Non solo. La classe politica che guida il nostro Paese ha già dato dimostrazioni sufficienti del proprio disprezzo verso la cultura intesa, nel senso più pieno e fecondo, come risorsa per forgiare uno sguardo autonomo e critico sulla realtà.
La formazione dell’opinione è delegata semmai all’incessante rincoglionimento mediatico, che col pensiero critico ha molto poco da spartire, essendo, in compenso, ben più funzionale a distogliere l’attenzione dai problemi reali.
Con queste premesse, una scuola pubblica autonoma dà molto fastidio. E una scuola pubblica autonoma passa in primo luogo per l’autonomia didattica dei docenti. La cui limitazione è sempre stata uno degli obiettivi dichiarati della Gelmini, a partire già dal disegno di legge presentato alla Camera il 5 febbraio scorso dal non ancora ministro dell’Istruzione, che prevedeva per gli insegnanti, tra le altre cose, la chiamata diretta da parte dei presidi. Questo provvedimento, qualora venisse attuato, significherebbe ovviamente lo smantellamento dei concorsi pubblici, delle graduatorie, dei titoli specialistici – un processo che del resto è già stato intrapreso, con la chiusura, da parte della Gellmini, delle SSIS, le scuole di specializzazione all’insegnamento che, dal 1999, rilasciavano il titolo di abilitazione al termine di un percorso biennale – , in una parola di ogni criterio di valutazione oggettivo. La scuola, ridotta ad azienda privata (tecnicamente a fondazione, secondo la proposta del ministro), selezionerà il proprio corpo docenti secondo il “merito”, in realtà in modo clientelare, potendo fare terra bruciata intorno a quei professori che non si dimostreranno abbastanza docili e allineati. Per i meno “meritevoli” sono infatti previste successive decurtazioni dello stipendio, fino al licenziamento.
Il disegno complessivo è fin troppo chiaro, e non giova alla sua comprensione il guardare alcuni provvedimenti del rocambolesco ministro come meramente estemporanei: si chiama privatizzazione della scuola statale, con annesso svuotamento di autonomia della funzione docente. In questo modello di scuola non è solo la figura del docente ad essere snaturata, ma lo stesso rapporto insegnante-allievo. Processo simmetrico alla svalutazione dell’autonomia dell’insegnante è, infatti, il ruolo assegnato all’interazione didattica. Che da formativa diventa meramente strumentale, grazie alla riduzione, conseguente dalle premesse generali, del discente a cliente. Con buona pace del merito, della cultura e, soprattutto, del nemico giurato di questa classe politica: il pensiero critico.
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