mercoledì 1 ottobre 2008

Neoliberisti nella sostanza, socialisti all'occorrenza


Alcuni commentatori hanno visto nel crac che si è abbattuto sugli istituti finanziari americani i primi segni della fine annunciata del capitalismo. Ma il capitalismo americano, il capitalismo in generale, non è arrivato alla sua fine, così come non è affatto morto il liberismo.

Non sono, ovviamente, un fautore del neoliberismo. E ho più volte scritto, di certo non da solo, che la finanza sganciata dall’economia reale non è una buona cosa, produce arricchimento per pochi ma non benessere, aggrava, in una parola, gli squilibri già esistenti. E i nodi, prima o poi, si sa, vengono al pettine. Ma non credo che sia opportuno indulgere al compiacimento. Il problema è grosso, e lo spettro della recessione sempre più concreto.

Pensare che il neoliberismo sia arrivato al capolinea è decisamente prematuro e probabilmente falso. Allora, forse che gli Stati Uniti si siano convertiti al socialismo, come suggeriscono altri riferendosi al "piano di salvataggio" caldeggiato dal presidente G.W. Bush? In realtà il suggerimento è ironico, perché chiaramente non è vero nemmeno questo. Molto più semplicemente, nei momenti di massima crisi del liberismo, gli Stati Uniti sono più volte ricorsi, non senza forti contrasti interni d’opinione, a provvedimenti socialisti nella sostanza per evitare il peggio. Cioè hanno attinto alla visione del nemico giurato di sempre, salvo riprendere il corso ordinario non appena le acque si fossero calmate.

Io credo, dunque, che la crisi in corso non abbia mostrato la fine del capitalismo, che è davvero difficile da ipotizzare e anche solo da pensare, quanto la perdurante centralità e vitalità dell’antitesi liberismo/socialismo. Un’opposizione che, lungi dall’essere stata superata dalla storia, rappresenta ancora un’alternativa fondamentale, un aut-aut radicale. Delle due l’una: o crediamo che il mercato si regoli da solo e possa espandersi senza incontrare limiti producendo un benessere diffuso; oppure riteniamo che siano necessari degli argini per bilanciare le inevitabili diseguaglianze che il mercato crea e che per ottenere questo, tra l’altro, è necessario che la finanza sia costretta a fare i conti con l’economia reale.

Ma liberismo e socialismo sono due categorie economico-politiche, se prese alla lettera due ideologie. Sono i due estremi di una scala: se assolutizzati producono danni. Il buon senso dovrebbe suggerire l’opportunità di posizioni intermedie, che sono certamente possibili. Nessun governo di fede liberista, oggi, dovrebbe concedersi il lusso di credere ciecamente nella spontaneità del mercato. Salvo, appunto, trovarsi impreparato di fronte all’inevitabile crisi. Successe ad Hoover nel 1929, è successo oggi a G.W. Bush. Ma simmetricamente nessuna concezione di ispirazione socialista dovrebbe essere così ingenua da credere che la dimensione globale dell’economia e dei capitali finanziari sia o debba essere un fenomeno reversibile. Sappiamo che non lo sarà, quindi è ingenuo pensare che debba esserlo.

A volte il buon senso sortisce effetti migliori delle teorie. Il tanto invocato pragmatismo, appunto. Ma non il pragmatismo dell’ultima ora, che serve per tappare i buchi. Bensì il pragmatismo fondato sulla conoscenza della storia, che deve suggerire che l’economia di mercato deve essere sottoposta a controlli più rigidi e a regole più trasparenti, che deve essere ancorata alla produzione di beni e servizi reali. Che deve essere stemperata con elementi di giustizia distributiva, che appartengono alla tradizione del pensiero socialista, ma che non sono incompatibili, contrariamente a quanto molti sembrano credere, con un modello di innovazione, crescita economica e sviluppo. La tradizione della socialdemocrazia mitteleuropea e scandinava offre validi esempi di una sintesi possibile, non irrigidita nella fissità di posizioni ideologiche.

Il pensiero economico dominante negli Stati Uniti è, tradizionalmente, diverso e poco incline ad accettare mediazioni. Questo lascia credere che, passata l’emergenza, l’economia riprenderà il suo corso, secondo le direttive neoliberiste. Ma i tempi e i modi al momento non sembrano chiari e intanto dalla crisi bisogna uscire; di certo alla fine si conteranno i morti e i feriti. Una possibile variabile, il cui scarto rispetto al modello dominante nel pensiero economico americano rimane tuttavia da valutare, potrebbe essere rappresentata da un’eventuale vittoria di Barack Obama alle presidenziali di novembre. In ogni caso, forse è meglio non farsi troppe illusioni. Il differente orientamento in materia di politiche sociali del candidato democratico è sostanziale. La sua carica simbolica, anche. Ma sulle politiche economiche un presidente degli Stati Uniti ha margini di pensiero autonomo angusti, perché risponde alle logiche di lobby potentissime che condizionano le sue scelte in modo decisivo.
Insomma, nel bene e nel male e al di là dei provvedimenti di emergenza, il modello americano rimane il modello americano.

4 commenti:

Antonio Candeliere ha detto...

Una cosa è certa: Il modello economico americano del “libero mercato” mostra sempre più le sue crepe.

Ribellula ha detto...

Non c'è dubbio. Direi che siamo di fronte a una coazione a ripetere, che è una delle tante cose brutte delle ideologie.

Anonimo ha detto...

...ma per fortuna in italia di questi problemi non ne abbiamo. no no. tsz. figuriamoci...no no.

Ribellula ha detto...

no no figuriamoci. Ideologia, populismo, razzismo, xenofobia... non sappiamo nemmeno cosa siano.