sabato 28 marzo 2009

Perché X-Factor non è diverso dagli altri reality

La televisione sta fatalmente risucchiando l’arte (oltre all’informazione) nel contenitore dell’intrattenimento. A tutto discapito dell'arte, il cui significato in ultima analisi sta nel rapporto con l’universale, ma che viene del tutto sacrificata al transitorio.

Qualche sera fa, a casa di vecchi amici, mi trovo a sorbirmi una puntata di X-Factor. In realtà ero stato largamente preavvisato e, al di là del palinsesto televisivo, la compagnia era talmente gradevole da rendere sopportabile qualsiasi cosa.
Chi mi conosce sa che da circa un anno vivo felicemente senza televisione, dopo averla progressivamente quasi del tutto accantonata in un arco di tempo più lungo, negli ultimi anni. Molto semplicemente, non la riesco più a guardare. Ma credo anche che l’intrattenimento abbia preso definitivamente il sopravvento su tutto, dall’informazione all’arte, dettando le sue regole.

Così mi capita di guardare la televisione solo occasionalmente e, forse, con un occhio diverso. Sospetto di tutto quello che vedo, non credo a nulla. Soprattutto, non credo più alla buona fede dello spettacolo che ci viene somministrato. Faccio molto volentieri a meno della televisione, ma tutte le volte che mi capita di vederla lo faccio per prender nota, per aggiungere elementi a quella critica globale alla civiltà dell’intrattenimento che non ritengo più rimandabile.

Vengo dunque al punto: X.Factor mi era stato presentato come un reality “diverso dagli altri”.


Dopo averlo visto una sera, non ho ravvisato questa differenza e se dovessi descrive ciò che rappresenta userei espressioni come: transitorio, commerciabile, venduto prima ancora di essere nato, provvisorio, estemporaneo, mercificato; consenso compulsivo da televoto.
L’intrattenimento riassorbe completamente l’arte dentro di sé, la risucchia, le impone i suoi canoni in modo assolutamente dispotico. Detta legge. In questo modo l’arte è del tutto svuotata del suo rapporto con l’universale in nome dell’egemonia del transitorio. L’ “arte”, per come è presente in programmi come X Factor, è sì rappresentativa di un’epoca (in ciò esattamente consiste l’universalità dell’arte) ma solo dei suoi tratti più esibizionisti, ostentatori, affabulatori. Arte masticata e risputata.

Quando l’intrattenimento avrà definitivamente ingoiato l’arte, l’arte sarà morta. E una società dove l’arte è morta, è morta anch’essa.

Michelangelo è un artista nel senso più degno e alto che questo termine può assumere, perché nella sua opera possiamo leggere i segni maturi di un’epoca. Quali segni del nostro tempo possiamo leggere in programmi come X-Factor? Certamente alcuni segni profondi. Per esempio la provvisorietà, l’idea che il successo sia tutto ciò che conta, che l’arte in fondo non costi fatica, che non valga la pena di perseguire un qualsiasi progetto culturalmente degno perché l’importante è che sia “commerciabile”; per esempio l’esibizionismo, il potere assoluto del consenso compulsivo del televoto e lo strapotere del fascino dispotico dell’immagine.

La domanda che mi è sempre sembrato giusto pormi è: perché anche persone che considero di comprovata intelligenza decidono consapevolmente di fruire dell’intrattenimento più basso? Ecco alcune motivazioni che mi sono state portate, con le mie obiezioni.
Ma io lavoro già dodici ore al giorno – E per questo vuoi punirti?
Ma l’evasione è necessaria! – Sono perfettamente d’accordo, il problema è il tipo di evasione che scegliamo (nella civiltà dell’intrattenimento tende ad essere di infima qualità).
Ancora: Lavoro tutto il giorno, la sera ho bisogno di annullarmi. In altre parole: di giorno lavoriamo, la sera “spegniamo” il cervello, poi dovremo pur dormire. Esiste un momento della giornata in cui sei ci riappropriamo del nostro cervello?

Mi dicono ancora: ci vuole un po’ di leggerezza. Rispondo: su tutto sono leggero, fuorché sulla televisione. “Leggerezza” è un’altra delle parole chiave della civiltà dell’intrattenimento: chiunque non si sottoponga passivamente e gioiosamente al potente spettacolo è pesante! Chi si vuole opporre alla civiltà dell’intrattenimento non è libero. Libero è solo chi la sceglie, ma chi non la sceglie non è libero di evitarla.

Ricordo che quando avevo vent’anni frequentavo un gruppo di cinque o sei amici. Nelle nostre serata spesso optavano per vedere i vari Vacanze di Natale. Io ero l’unico contro e quindi non potevo fare il guastafeste. Mi adattavo, cercando di non farlo pesare, esattamente come faccio oggi mugugnando solo un poco, ma l’essenziale è che non ero libero allora esattamente come non lo sono oggi. Due di quei cinque-sei erano, e sono rimasti, dei miei amici fraterni; gli altri sono ancora buoni conoscenti. Ma resto convinto che il mio fastidio, allora istintivo, fosse più lungimirante di quanto non prescrivesse la sempre richiesta disposizione all’insegna della leggerezza: oggi si dovrebbe vedere chiaramente che quel tipo di cinema non era e non è innocuo, ma ha svolto e continua a svolgere il suo ruolo specifico in quel più generale fenomeno culturale che è il berlusconismo, e del quale non dovremmo davvero andare fieri o prenderlo con “leggerezza”.

E con questo torno all’evasione, per fare due considerazioni. Uno: non è detto che coincida con la mancanza di qualità. Su questo punto mi piace sempre citare Michele Serra, che qualche tempo fa spiegò molto bene che non esiste solo una cultura “alta” e una “bassa”: c’è anche un basso dell’alto, come c’è un alto del basso. Serra diceva questo per difendere Happy Days, il telefilm americano cult degli anni Ottanta, dalle critiche intrise di un certo snobismo intellettuale, secondo le quali sarebbe un prodotto di serie B. In risposta a queste critiche, Serra sosteneva che Happy Days è appunto un alto del basso, e non un prodotto di infima fattura. Sono perfettamente d’accordo, eppure quando critico il basso del basso mi rimproverano, nemmeno troppo implicitamente, di avere gusti eccessivamente elitari.

Due: se l’evasione è necessaria, il modo in cui evadere è una scelta. Resto convinto che uno dei grandi problemi ai quali la sociologia dell’arte dovrebbe rispondere è perché cerchiamo evasione in prodotti culturali straordinariamente mediocri.

Ancora, mi dicono che forse non capisco la televisione. Può darsi che sia così. Ma in fondo non lo credo. Piuttosto, sono convinto di averla capita talmente bene che l’ho spenta.

3 commenti:

Chiara Tortorelli ha detto...

Ti ringrazio.
Hai espresso in modo preciso e puntuale ciò che penso da anni.
Nel serpeggiante malessere di omologazione forzata, un bel giorno ho spento la tv.
Incuriosita, oggi, assisto al fenomeno di chi continua a guardarla: non credo consapevoli, passivi fruitori, incerti, beati, balbettanti, felici di dedicare del tempo al "non pensare", soggiogati da un sonno profondo...come nella favola della "bella addormentata".
E lei, la "televisione", se la ride, dominante incontrastata di incontri, di rapporti, di scontri, filo conduttore sempre acceso che fa da collante alle parole vuote, al non sense paradossale di chi non ha più spazi...

Ribellula ha detto...
Questo commento è stato eliminato dall'autore.
Ribellula ha detto...

Ciao Chiara, mi dispiace risponderti solo ora, ma aggiornando il blog il tuo commento era rimasto indietro nelle pagine precedenti. Grazie a te per la visita e per il commento - e per la testimonianza di resistenza umana.

P.P.