Le recenti, prevedibilissime e ormai sempre più paranoiche accuse del cavaliere, secondo le quali ogni decisione a lui sfavorevole sarebbe il parto di un complotto, della sinistra italiana o internazionale, offrono lo spunto per un ragionamento; occorre dire, in realtà, che la dichiarazione di incostituzionalità del Lodo Alfano ha prima di tutto un significato giuridico. E che, più in generale, l’opposizione al cavaliere non ha, o non dovrebbe avere, un valore personale e non dovrebbe averne nemmeno uno partitico, benché abbia una chiarissima e sacrosanta valenza politica.
Continuo ad essere convinto che, malgrado i molti sforzi strumentali di ridurre tutto a un pronunciamento pro o contro chi si crede il padrone del Paese, l’opposizione al cavaliere non sia o non dovrebbe essere una semplice questione di campanile politico, ma investa profondamente il problema dello statuto della democrazia.
Questa polarizzazione del dibattito, in effetti, è stata ed in parte è ancora uno dei motivi più radicali del successo politico di Silvio Berlusconi: è il naturale manicheismo del cavaliere, che da sempre ha portato nell’agone politico una contrapposizione che lo vedeva come polo dialettico inamovibile, fino a riuscire a trascinare mezza Italia nel suo patologico delirio, convincendo davvero molti dei suoi elettori di essere vittima di un complotto.
Il dimenarsi del cavaliere contro tutto ciò che pare limitare la sua volontà di porsi al di sopra della legge dimostra una volta in più la sua concezione profondamente illiberale delle regole democratiche, sempre compendiata in quell’equivoco richiamo alla volontà popolare: come se il consenso ricevuto dalle urne sia condizione sufficiente dell’esercizio del proprio mandato e della sua democraticità; che le cose non stiano così, l'ho sottolineato più volte, ma non sarà vano ripeterlo ancora. In un’ottica liberale e rispettosa delle fondamentali prerogative democratiche, il consenso popolare è certamente una condizione necessaria di ogni democrazia, ma non è una condizione sufficiente. Anche il nazismo ha tratto inizialmente la sua legittimità dal consenso popolare e l’accostamento non deve apparire inappropriato: qui ha il solo scopo di mostrare, con un argomento che mi pare incontrovertibile, che il consenso popolare non è condizione sufficiente perché una democrazia sia tale. Non a caso l’ascesa del nazismo in Germania offre a questo scopo un’evidenza maggiore che non l’affermazione del fascismo: com’è noto il primo, e non il secondo, è arrivato al potere per via democratica.
Il continuo richiamarsi al consenso popolare per giustificare intrinsecamente il proprio potere va dunque riguardato come un atteggiamento illiberale e quanto mai pericoloso e deve suscitare la più viva preoccupazione non solo a sinistra, ma anche di chiunque, a destra, si riconosca nella tradizione liberale.
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