Se è vero che la scrittura è sempre, alla radice, un atto di ribellione – se non altro verso la pura e semplice accettazione della realtà così come essa si presenta - l’eccessiva e non evitabile esposizione al peggior palinsesto televisivo che mi è stata imposta durante le recenti feste (solo due giorni ma mi sono bastati) mi ha fatto nascere l'esigenza, magrissima consolazione, di gridare vendetta. Ecco, allora, qualche altro disordinato appunto sulla televisione.
Contrariamente a quello che qualcuno crede, io adoro tutta una serie di cose “leggere”, alla sola condizione che siano intellettualmente e artisticamente oneste. Cioè esattamente l’opposto di qualsiasi “reality”, che non può essere onesto in linea di principio, poiché è, fin dalla parola, esattamente il contrario di quello che promette – non può esistere un reality diverso dagli altri, è un puro non-senso.
Per esempio mi piacciono: Indiana Jones, i Simpson (senza fanatismo), le filastrocche ecc. ecc. Qual è la differenza? In realtà ce ne sono molte. Tanto per cominciare, tutte queste diverse espressioni hanno una narrazione. L’intrattenimento televisivo, invece, tende a disgregare qualsiasi narrazione, ad eccezione di quel canovaccio minimo all’interno del quale deve prendere forma semplicemente l’affabulazione dello spettatore.
Qui esiste un discrimine ineliminabile, che tuttavia oggi si tende a cancellare (chi produce il potente spettacolo lo fa per avidità, il pubblico ipnotizzato per stupidità, ignoranza, arrivismo, protagonismo): l’arte è connessa al disinteresse. Questo, naturalmente, non significa affatto che l’opera d’arte non possa, o persino non debba essere anche venduta; ma significa, radicalmente, che non è il suo scopo, la sua finalità, la sua ragion d’essere. L’intrattenimento che ingloba l’arte la annulla, proprio perché ne distrugge questa funzione originaria. L’intrattenimento premia da principio esclusivamente ciò che è commerciabile, collocabile sul mercato, vendibile, e dunque, intrinsecamente, transitorio (le caratteristiche dell’arte, invece, sono: universalità e permanenza).
In altri termini, laddove l’opera d’arte viene prima realizzata e poi venduta, l’intrattenimento ribalta drasticamente questo rapporto, per cui la presunta opera d’arte viene anzi tutto venduta, in molti casi prima ancora di essere stata realizzata. In questo modo l’arte non è più sinonimo di eccellenza, ma apoteosi della mediocrità: l’everyman della televisione promosso ad “artista”, la televisione, la possibilità offerta a tutti, lo specchio trasfigurato e sognante di moltitudini cui viene agitate l’illusione di essere rappresentate (culmine della malafede), in un flusso incessante di giochi di prestigio nel quale viene mostrata ed esaltata solo l’esibizione dei tratti medi. L’artista diventa così, nella civiltà dell’intrattenimento, il menestrello delle masse addomesticate dal medium più narcotico che sia mai esistito.
Contrariamente a quello che qualcuno crede, io adoro tutta una serie di cose “leggere”, alla sola condizione che siano intellettualmente e artisticamente oneste. Cioè esattamente l’opposto di qualsiasi “reality”, che non può essere onesto in linea di principio, poiché è, fin dalla parola, esattamente il contrario di quello che promette – non può esistere un reality diverso dagli altri, è un puro non-senso.
Per esempio mi piacciono: Indiana Jones, i Simpson (senza fanatismo), le filastrocche ecc. ecc. Qual è la differenza? In realtà ce ne sono molte. Tanto per cominciare, tutte queste diverse espressioni hanno una narrazione. L’intrattenimento televisivo, invece, tende a disgregare qualsiasi narrazione, ad eccezione di quel canovaccio minimo all’interno del quale deve prendere forma semplicemente l’affabulazione dello spettatore.
Qui esiste un discrimine ineliminabile, che tuttavia oggi si tende a cancellare (chi produce il potente spettacolo lo fa per avidità, il pubblico ipnotizzato per stupidità, ignoranza, arrivismo, protagonismo): l’arte è connessa al disinteresse. Questo, naturalmente, non significa affatto che l’opera d’arte non possa, o persino non debba essere anche venduta; ma significa, radicalmente, che non è il suo scopo, la sua finalità, la sua ragion d’essere. L’intrattenimento che ingloba l’arte la annulla, proprio perché ne distrugge questa funzione originaria. L’intrattenimento premia da principio esclusivamente ciò che è commerciabile, collocabile sul mercato, vendibile, e dunque, intrinsecamente, transitorio (le caratteristiche dell’arte, invece, sono: universalità e permanenza).
In altri termini, laddove l’opera d’arte viene prima realizzata e poi venduta, l’intrattenimento ribalta drasticamente questo rapporto, per cui la presunta opera d’arte viene anzi tutto venduta, in molti casi prima ancora di essere stata realizzata. In questo modo l’arte non è più sinonimo di eccellenza, ma apoteosi della mediocrità: l’everyman della televisione promosso ad “artista”, la televisione, la possibilità offerta a tutti, lo specchio trasfigurato e sognante di moltitudini cui viene agitate l’illusione di essere rappresentate (culmine della malafede), in un flusso incessante di giochi di prestigio nel quale viene mostrata ed esaltata solo l’esibizione dei tratti medi. L’artista diventa così, nella civiltà dell’intrattenimento, il menestrello delle masse addomesticate dal medium più narcotico che sia mai esistito.
2 commenti:
un vero artista deve sempre andare per la sua strada, non dare retta alle mode e al modo piú semplice di guadagnare, il vero artista dipinge, scrive, suona, innanzitutto per se stesso, io sinceramente ad eseguire quadri su commissioni divesri dal mio stile non lo prendo nemmeno in considerazione anche se me lo hanno chiesto piú volte, la mia impressione é sempre stata: ma cosa credono?
ho perduto diverse vendite ma ne ho guadagnato in soddisfazione,
con questo non voglio dire che sono una vera artista ma ci provo
bello il tuo post l'ho letto di un fiato
Cara Laura, benvenuta sul mio blog e grazie per il tuo commento. Forse ti spiazzerò – o forse no – dicendoti che, al posto tuo, i quadri su commissione tutto sommato li farei.
Una volta un giornalista chiese a Martin Scorsese, in che modo dovrebbe comportarsi il regista diviso tra l’esigenza di fare arte e quella, imposta dal sistema, di vendere i film che fa. La risposta di Scorsese fu il classico uovo di Colombo: “faccio un film per me e un altro per il sistema”.
Ma vale la pena di osservare un paio di cose. Primo: quando Scorsese ha fatto film per sé credo abbia prodotto capolavori. Secondo: anche quando li ha fatti “per il sistema”, secondo me ha trovato il modo di metterci del suo.
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