La Gelmini dimostra di aver appreso molto bene la lezione del suo premier: le critiche non sono ammesse. O meglio, precisa il ministro: “Ci sono alcuni dirigenti scolastici e insegnanti, una minoranza, che disattendono l'attuazione delle riforme. Criticare è legittimo ma comportarsi così significa fare politica a scuola e questo non è corretto”.
L’autorizzazione a criticare è un puro esercizio retorico, infatti subito dopo, nell’intervista rilasciata al Corriere della Sera, la Gelmini aggiunge: “Se un insegnante vuole far politica deve uscire dalla scuola e farsi eleggere. Quella è la sede per le sue battaglie, non la cattedra”. È un’affermazione che, nel più generale clima politico e culturale, non appare sorprendente. Morale: si fa come dico io, chi non è d’accordo “fa politica”, quindi sbaglia.
Ora, il ministro Gelmini dovrebbe capire che il problema è oltretutto molto più ampio: non fare politica è, in certa misura, semplicemente impossibile. Chi afferma di non farla o è sciocco o è in malafede; tanto vale, a volte, essere onesti e dichiarare senza mezzi termini da che parte si sta. Si provi a immaginare un insegnante di storia che si tenga a debita distanza della politica; che non la tocchi mai. Che magari, dopo aver tracciato le caratteristiche delle democrazie liberali, riesca a passare del tutto sotto silenzio, a non toccare affatto il problema dello stato di salute della democrazia in Italia, mai, né esplicitamente né implicitamente.
E, ancora, potrebbe un insegnante di storia trattare il problema del ruolo dell’informazione in una democrazia senza fare alcun riferimento all’attualità, asetticamente e astrattamente?
Certo, nessun professore dovrebbe entrare in classe e recitare il proprio catechismo politico; l’approccio deve essere sempre problematico, ma in quanto tale è già potenzialmente gravido di implicazioni politiche. Non fare politica affatto è impossibile, perché è nella dimensione politica e civile che la storia si invera. Continuare a combattere contro il massacro della scuola pubblica in corso non è una battaglia partitica, ma è certamente politica. E ogni professore e dirigente che la pensi così ha diritto di fare questa battaglia.
L’autorizzazione a criticare è un puro esercizio retorico, infatti subito dopo, nell’intervista rilasciata al Corriere della Sera, la Gelmini aggiunge: “Se un insegnante vuole far politica deve uscire dalla scuola e farsi eleggere. Quella è la sede per le sue battaglie, non la cattedra”. È un’affermazione che, nel più generale clima politico e culturale, non appare sorprendente. Morale: si fa come dico io, chi non è d’accordo “fa politica”, quindi sbaglia.
Ora, il ministro Gelmini dovrebbe capire che il problema è oltretutto molto più ampio: non fare politica è, in certa misura, semplicemente impossibile. Chi afferma di non farla o è sciocco o è in malafede; tanto vale, a volte, essere onesti e dichiarare senza mezzi termini da che parte si sta. Si provi a immaginare un insegnante di storia che si tenga a debita distanza della politica; che non la tocchi mai. Che magari, dopo aver tracciato le caratteristiche delle democrazie liberali, riesca a passare del tutto sotto silenzio, a non toccare affatto il problema dello stato di salute della democrazia in Italia, mai, né esplicitamente né implicitamente.
E, ancora, potrebbe un insegnante di storia trattare il problema del ruolo dell’informazione in una democrazia senza fare alcun riferimento all’attualità, asetticamente e astrattamente?
Certo, nessun professore dovrebbe entrare in classe e recitare il proprio catechismo politico; l’approccio deve essere sempre problematico, ma in quanto tale è già potenzialmente gravido di implicazioni politiche. Non fare politica affatto è impossibile, perché è nella dimensione politica e civile che la storia si invera. Continuare a combattere contro il massacro della scuola pubblica in corso non è una battaglia partitica, ma è certamente politica. E ogni professore e dirigente che la pensi così ha diritto di fare questa battaglia.
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