giovedì 8 maggio 2008

Relativismo etico o universalità dei diritti?


Per comprendere la vitalità e la fecondità del relativismo, così come l’anelito di tolleranza che ne è alla base, basterebbe ricordare, per contrasto, i nomi dei suoi detrattori odierni: Benedetto XVI, George W. Bush, Marcello Pera, Gianfranco Fini… Non parlerei di Berlusconi, al quale gli speech writer scrivono cosa dire su argomenti di cui ignora tutto o quasi.Per la verità, la prospettiva cambia ove si consideri che è anti-relativista anche uno dei massimi filosofi viventi, Jurgen Habermas. Ma Habermas, che non ha in simpatia Bush, respinge il relativismo sulla base del presupposto kantiano di un nocciolo universalistico dei diritti umani fondamentali, alla luce del quale le culture possono essere confrontate. Insomma, il tipo di relativismo che ha presente e critica è molto diverso dal bersaglio polemico dei personaggi succitati, che contrastano il relativismo in nome di una visione reazionaria. Ma il relativismo, che sfocia nell’enunciazione della pari dignità di culture diverse, può convivere con l’accettazione di un certo numero di diritti universali indiscutibili, o porta necessariamente con sé il dogma dell’incommensurabilità tra culture? La discussione su questo tema è aperta, per conto mio propendo decisamente per la prima lettura. Si possono leggere, in proposito, alcune belle riflessioni del linguista americano B.L. Whorf.

- Trovo gratuito supporre che un Hopi [gli indiani d’America la cui lingua fu studiata da Whorf] il quale conosce solo la sua lingua e la cultura della sua società abbia gli stessi concetti, sovente ritenuti intuizioni, di spazio e di tempo che abbiamo noi, e che generalmente vengono ritenuti universali (…)

- Analizziamo la natura secondo le linee tracciate dalle nostre lingue. (…) Siamo così indotti a un nuovo principio di relatività, secondo cui diversi osservatori non sono condotti dagli stessi fatti fisici alla stessa immagine del mondo, a meno che i loro retroterra linguistici non siano simili, o non possano essere in qualche modo tarati.

- Così la lingua dovrebbe essere in grado di analizzare alcune, se non tutte, le differenze, reali o presunte, tra la mentalità dei popoli cosiddetti primitivi e quelli moderni e civilizzati; se i primi costituiscono una classe unitaria di modi di pensiero contrapposta ai moderni, a prescindere dalla differenza tra le loro culture e quelle di questi ultimi, come è implicito nel concetto di Levi-Bruhl di partecipazione mistica e nell'equazione tra primitivo e infantile usata da Freud e da Jung; o se, piuttosto (di nuovo a prescindere dalla cultura generale) non siano gli uomini moderni e civili a rappresentare una classe unitaria di modi di pensiero a causa della grande somiglianza strutturale tra le lingue moderne occidentali, mentre in contrasto con essi ci sono molti e diversi modi di pensare che riflettono una grande diversità di struttura del discorso.

- La teoria evoluzionistica è piombata sull’uomo moderno quando le sue nozioni sul linguaggio e sul pensiero erano basate sulla conoscenza di solo pochi delle centinaia di tipi linguistici diversissimi esistenti; ha rafforzato i suoi provinciali pregiudizi linguistici e ha incoraggiato il grandioso abbaglio che questo tipo di pensiero e le poche lingue europee su cui è basato rappresentino il culmine e il fiore dell’evoluzione del linguaggio!

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