La notizia la trovate qui. Una ventenne si vede proporre 200 Euro al mese per lavorare come commessa a tempo pienissimo. Accade nel ricco nord. Eccezione, dicono. Siamo proprio sicuri? Al contrario, credo sia un fatto che negli ultimi anni il potere negoziale dei lavoratori sia andato a farsi benedire. Le aziende, ormai, hanno il coltello dalla parte del manico, si direbbe. Ma la metafora è persino insoddisfacente: sarebbe più corretto dire che i lavoratori hanno una spada infilata nel c. Ciascuno di noi ha un’esperienza personale da raccontare, ne ho un paio anch’io.
Quando ero studente, e per un po’ anche dopo, ho lavorato per una società di ricerche di mercato: facevo le interviste al telefono. Ci siamo passati un po’ tutti. Anche se il lavoro non era esaltante, all’inizio andava bene, pagavano a ore e tutto sommato potevi farci affidamento. Sapete come paga ora quell’azienda? Il compenso pieno è garantito soltanto al raggiungimento di un certo numero di interviste, calcolate sempre più sul limite umano del lavoratore. Ma la cosa più vergognosa è il modo in cui sono calcolate le “fasce”; si, perché se non si fa il numero d’interviste previsto ci sono delle detrazioni, ma queste non sono calcolate in modo lineare, bensì esponenziale: a ogni fascia corrisponde un valore unitario crecente dell’intervista, ma il divario tra una fascia e l’altra è considerevole. Non so se riesco a spiegarmi, significa che se un intervistatore fa la metà delle interviste non prende affatto la metà del compenso, ma, poniamo, un ottavo! In questo modo si rischia di aver lavorato per cinque euro al giorno. Capite bene che per questa via ogni tutela dei lavoratori è saltata. Cosa succede se un lavoratore di questa azienda è perfettamente in media per finire un progetto, ma dopo tot giorni si ammala? In questo caso, vi assicuro che gli viene riconosciuto un compenso assolutamente irrisorio. Naturalmente non ho bisogno di dirvi che molte di queste persone hanno famiglia. Fare un lavoro monotono, ripetitivo e assolutamente usurante è sopportabile se hai uno straccio di tutele, altrimenti vi assicuro che può diventare davvero un inferno. Lavori, e non sai nemmeno se guadagnerai. Se tutto va bene, guadagni poco, probabilmente pochissimo e forse anche niente.
Questo è il modo in cui lavora una delle maggiori società di ricerche di mercato. Eccezione? Temo di no.
Va bene, cambiamo settore. Parliamo di scuola. A giugno dello scorso anno ho conseguito l’abilitazione all'insegnamento. Ho investito due ulteriori anni, non semplici per molti motivi, sulla mia formazione, per incontrare il mercato del lavoro. Invece ho incontrato la Gelmini. Ma non è di questo che voglio parlare ora, quanto del fatto che molti miei colleghi ora “lavorano” gratis per le scuole private (fateci caso: ormai “lavorare gratis” è un’espressione della lingua italiana). Perché per chi non lo sapesse è invalsa questa italica usanza: poiché un docente, evidentemente non di ruolo, lavorando presso le scuole private acquisisce punti che gli permettono di scalare posizioni in graduatoria, moltissime scuole private non pagano. Proprio così, non sto dicendo che pagano poco, o che danno solo un rimborso spese, sto dicendo che non tirano fuori un solo Euro. Il ragionamento è noto: se non accetti tu, accetterà qualcun altro. In pratica di retribuiscono in punti che, come è noto, non sono una valuta accettata per pagare affitto e bollette. Recentemente mi sono arrabbiato con un collega che si è prestato all’infame meccanismo. È un amico, per carità, mi sono limitato a una ramanzina bonaria: non dovresti, non dovremmo farlo, così gliela diamo vinta. Abbiamo titoli e competenze, il lavoro si paga. Magari poco, ma si paga. Abbiamo un’associazione sindacale di categoria, perché non denunciamo questi abusi?
Ma tant’è. A livello individuale lo capisco pure: al prossimo aggiornamento delle graduatorie avrà dei punti in più da spendere e probabilmente avrà la sua supplenza annuale. Per altro più che sudata. Ma ho l’impressione che a forza di salvarci individualmente stiamo sprofondando collettivamente.
Quando ero studente, e per un po’ anche dopo, ho lavorato per una società di ricerche di mercato: facevo le interviste al telefono. Ci siamo passati un po’ tutti. Anche se il lavoro non era esaltante, all’inizio andava bene, pagavano a ore e tutto sommato potevi farci affidamento. Sapete come paga ora quell’azienda? Il compenso pieno è garantito soltanto al raggiungimento di un certo numero di interviste, calcolate sempre più sul limite umano del lavoratore. Ma la cosa più vergognosa è il modo in cui sono calcolate le “fasce”; si, perché se non si fa il numero d’interviste previsto ci sono delle detrazioni, ma queste non sono calcolate in modo lineare, bensì esponenziale: a ogni fascia corrisponde un valore unitario crecente dell’intervista, ma il divario tra una fascia e l’altra è considerevole. Non so se riesco a spiegarmi, significa che se un intervistatore fa la metà delle interviste non prende affatto la metà del compenso, ma, poniamo, un ottavo! In questo modo si rischia di aver lavorato per cinque euro al giorno. Capite bene che per questa via ogni tutela dei lavoratori è saltata. Cosa succede se un lavoratore di questa azienda è perfettamente in media per finire un progetto, ma dopo tot giorni si ammala? In questo caso, vi assicuro che gli viene riconosciuto un compenso assolutamente irrisorio. Naturalmente non ho bisogno di dirvi che molte di queste persone hanno famiglia. Fare un lavoro monotono, ripetitivo e assolutamente usurante è sopportabile se hai uno straccio di tutele, altrimenti vi assicuro che può diventare davvero un inferno. Lavori, e non sai nemmeno se guadagnerai. Se tutto va bene, guadagni poco, probabilmente pochissimo e forse anche niente.
Questo è il modo in cui lavora una delle maggiori società di ricerche di mercato. Eccezione? Temo di no.
Va bene, cambiamo settore. Parliamo di scuola. A giugno dello scorso anno ho conseguito l’abilitazione all'insegnamento. Ho investito due ulteriori anni, non semplici per molti motivi, sulla mia formazione, per incontrare il mercato del lavoro. Invece ho incontrato la Gelmini. Ma non è di questo che voglio parlare ora, quanto del fatto che molti miei colleghi ora “lavorano” gratis per le scuole private (fateci caso: ormai “lavorare gratis” è un’espressione della lingua italiana). Perché per chi non lo sapesse è invalsa questa italica usanza: poiché un docente, evidentemente non di ruolo, lavorando presso le scuole private acquisisce punti che gli permettono di scalare posizioni in graduatoria, moltissime scuole private non pagano. Proprio così, non sto dicendo che pagano poco, o che danno solo un rimborso spese, sto dicendo che non tirano fuori un solo Euro. Il ragionamento è noto: se non accetti tu, accetterà qualcun altro. In pratica di retribuiscono in punti che, come è noto, non sono una valuta accettata per pagare affitto e bollette. Recentemente mi sono arrabbiato con un collega che si è prestato all’infame meccanismo. È un amico, per carità, mi sono limitato a una ramanzina bonaria: non dovresti, non dovremmo farlo, così gliela diamo vinta. Abbiamo titoli e competenze, il lavoro si paga. Magari poco, ma si paga. Abbiamo un’associazione sindacale di categoria, perché non denunciamo questi abusi?
Ma tant’è. A livello individuale lo capisco pure: al prossimo aggiornamento delle graduatorie avrà dei punti in più da spendere e probabilmente avrà la sua supplenza annuale. Per altro più che sudata. Ma ho l’impressione che a forza di salvarci individualmente stiamo sprofondando collettivamente.
Nessun commento:
Posta un commento